La Cassazione apre un capitolo nuovo, quello delle libere offese al datore di lavoro perpetuate tramite chat di WhatsApp.
I dipendenti sono liberi di offendere e disprezzare il capo durante una conversazione personale con altre persone in chat. La sentenza della Cassazione arriva a togliere un freno ai lavoratori che sentono il bisogno di sfogarsi.

I luoghi di lavoro non sono tutti idilliaci. Spesso il contesto lavorativo è tutt’altro che piacevole e sereno, rappresenta una fonte di stress che a lungo andare logora mente e corpo. Purtroppo tanti datori di lavoro/capi non hanno ancora compreso che se il dipendente è soddisfatto, apprezzato e a suo agio lavora in modo più produttivo e mette un maggiore impegno nell’attività svolta. Le frustrazioni, i disagi e le paure di ripercussioni, invece, peggiorano la qualità del lavoro e il rendimento.
Va da sé che un ambiente di lavoro malsano con un datore di lavoro o capo saccente, presuntuoso, poco disponibile porta il dipendente a doversi sfogare della situazione pesante in cui è costretto a stare. Da qui parole pesanti e offese nelle chat, all’interno di gruppi. La vicenda esaminata dalla Cassazione ha come protagonista un lavoratore che in un gruppo WhatsApp chiamato “Amici di lavoro” ha insultato il team leader.
La Cassazione non reputa le offese in chat motivo di licenziamento
Gli insulti e le frasi razziste che il dipendente ha lanciato in chat al team leader sono arrivate fino all’azienda in cui prestava servizio. Questa ha licenziato il lavoratore che ha fatto ricorso. Ebbene, secondo la Cassazione il licenziamento non è legittimo perché la conversazione è avvenuta in uno spazio privato e dunque non può legittimare un provvedimento disciplinare così duro e definitivo.

La chat di WhatsApp, infatti, non è equiparabile ad una bacheca Facebook accessibile ad un pubblico indefinito. I messaggi inviati sull’app di messagistica sono rivolti a poche persone e, di conseguenza, non possono essere trattati come dichiarazioni pubbliche.
L’azienda aveva deciso di licenziare il dipendente perché il datore di lavoro ha l’obbligo di tutelare la persona offesa (il team leader nel caso specifico). La Cassazione, però, ha confermato che pur essendo in presenza di espressioni offensive per il loro carattere privato non poteva scaturire una giusta causa di licenziamento tenendo conto dei precedenti della Giurisprudenza (sentenza numero 21965 del 2018).
Inoltre la Cassazione ha valutato anche il modo in cui l’azienda è venuta a conoscenza delle offese. L’accesso ad una comunicazione privata non giustifica l’uso delle informazioni contenute nel messaggio per punire il dipendente anche se fornite da un altro lavoratore/collega. La gravità del linguaggio non può ledere il diritto alla privacy di una persona, da qui la sentenza che impedisce il licenziamento per offese in chat privata.